La povertà che uccide
La morte insegna a vivere. È accaduto anche a Battipaglia che dalla morte s’imparasse qualcosa. Un solo decesso, però, non è bastato; ce ne sono voluti due. In soli quattro giorni.
29 dicembre 2016. I vigili urbani ricevono una telefonata. Dalla cornetta arriva il piagnucolio d’un uomo dall’accento polacco. Quella voce straziata annuncia la morte d’un amico. Gli agenti della polizia municipale, diretti dal comandante Gerardo Iuliano, corrono a via Ripa. Jacek Gryzak. Un polacco di 48 anni. Morto. A stroncarlo, in quella vecchia palazzina in cui viveva di nascosto, come un fantasma, un infarto: a provocare la crisi circolatoria, sopravvenuta durante la cena della sera prima, la cirrosi epatica da cui l’uomo era affetto da tempo. Un fegato ridotto a un colabrodo, dilaniato da quegli alcolici che Jacek consumava un po’ per vizio, un po’ per cercare il calore che gli mancava, tra le mattonelle divelte e il solaio pericolante di quella vecchia fabbrica di plastica, tra quei materassi ridotti a cenci e le troppe bottiglie di vetro accumulate.
2 gennaio 2017. I caschi bianchi sono nei pressi dello stadio Pastena. All’interno dell’ex Litobox, in un’altra palazzina dismessa, tra travi sporgenti e cumuli di rifiuti, c’è il cadavere d’un uomo. Il volto sanguina. C’è una puzza nauseabonda: “quel corpo sarà lì da più di ventiquattr’ore”, ipotizzano i vigili e pure i carabinieri, che arrivano poco dopo.
È Aziz Nori, un marocchino di 49 anni, bracciante agricolo occasionale, e ovviamente sempre a nero, con problemi di alcol alle spalle. Un altro fantasma in una città su cui aleggiano tanti, troppi spettri. Ucciso dal freddo e dalla povertà in una vecchia fabbrica abbandonata, piena di topi. È diventato cibo per topi, che gli hanno rosicchiato il volto.
Sono figure indistinte d’un’altra Battipaglia. Una piccola popolazione che si prende le strade e le più fatiscenti palazzine di notte, quando noialtri siamo al calduccio, nel letto, dopo aver digerito la cena.
Non ci sono solo stranieri: anche qualche battipagliese dorme per strada. Qualcuno attende le prime luci del mattino disteso su un cartone adaagiato sul cemento di piazza Salvo D’Acquisto, alle spalle di Palazzo di Città, o sul pavimento della stazione, o sulle panchine di piazza Ferrovia. Ci sono quelli che trovano riparo davanti al portone d’una chiesa, come fanno due sposi salernitani, a Serroni, ché magari, da lì, Gesù ascolta meglio le preghiere d’una vita migliore. Poi ci sono i fantasmi di via Ripa e quelli della zona del Pastena. C’era una ragazza battipagliese che, fino a poche settimane fa, trascorreva la notte sotto un ponte dell’autostrada: ora non si sa che fine abbia fatto. C’erano dei rumeni che dormivano all’interno d’una vecchia baracca abbandonata, nei pressi dell’ex zuccherificio, ma, dopo il rogo, l’accesso è stato murato: ora non si sa che fine abbiano fatto. C’erano dei clochard che trascorrevano le notti in una palazzina dismessa a Parco delle Magnolie: ora non si sa che fine abbiano fatto.
L’amministrazione comunale ha messo a disposizione dell’altra Battipaglia, quella che ha per coperta il cielo, alcuni locali a via Rosa Jemma, dove c’era la Sandro Penna e dove finiranno tredici aule del Ferrari: i vigili e i volontari di Protezione Civile e Croce Rossa fanno le ore piccole per mettere al riparo i clochard, o almeno per offrire a quelli più ostinati, quelli che non vogliono abbandonare il selciato che fa loro da brandina, un tè caldo e tante coperte. E poi ci siamo noi: ci indigniamo, postiamo la nostra amarezza sui social, dando la colpa a qualcuno per indulgere nei nostri confronti, ma dopo qualche giorno digiteremo che devono andarsene “Tutti a kasa!1!1!”, scriviamo questo inutile articolo perché speriamo di restare umani. Non cambieremo mai, perché sì, la morte insegna a vivere, ma, quando s’impara la lezione, è troppo tardi per metterla in pratica. È troppo tardi per vivere.