La prima volta | di Lucio Spampinato
La prima volta che sono morto, devo confessare che fui preso abbastanza alla sprovvista. Infatti, mentre tristemente mi deponevano nella cappella di famiglia, immaginavo già che la luce si sarebbe ad un tratto chiusa intorno a me, restringendo il mio orizzonte a pochissimi metri cubi. E buonanotte! Invece, nulla di tutto questo. Anzi, quando gli operai cimiteriali ancora armeggiavano con cazzuole e cementina, mi si schiuse intorno una luce soffice, come una nebbiolina che mi si attaccava addosso. In pochi secondi mi ritrovai, non chiuso nel buio eterno del sepolcro della cappella di famiglia, oscurata al giorno dai cipressi centenari, ma fuori, all’aria aperta, proprio davanti al cancelletto vetrato e temperato del mausoleo gentilizio in granito scuro in cui io, essendo appartenuto ad una famiglia di notai, sarei stato di regola destinato a rimanere. E, proprio lì davanti, in un sereno rassicurante e profumato di buono e senza più nessuno dei dolenti che mi avevano accompagnato ai Campi Elisi, cominciai a godere di una certa serenità d’animo.
Non avendo proprio un bel nulla da fare – almeno così credevo – mi fermai a riflettere sul fatto che era stata una serie di azioni deterministiche, e non il caso, ad avermi portato a quella precisa scelta di sepoltura (il posto subito a sinistra, entrando, all’ultimo cubicolo in alto) e cioè che litigi fra vecchi zii, ricomposizioni familiari, ritorni di parenti dagli Stati Uniti, persino un sacerdote consigliere fraudolente che si era infiltrato nella compagine familiare con qualche malcelato proposito di arricchimento, proprio come le risultanti vettoriali di più forze fisiche su un corpo, avevano programmato il luogo, i metri e i centimetri della mia estrema dimora. Mentre pensavo queste cose, meravigliandomi di come la mente andasse veloce a toccare tanti concetti e di come li articolasse con disinvoltura ed efficacia, mi incamminai verso uno slargo che in vita avevo percorso più volte per meste visite a parenti e amici defunti.
Dopo pochi passi, incrociai un uomo che sembrava un impiegato comunale, in giacca e camicia ma senza cravatta, con uno stile un poco dimesso a dire il vero. «Buongiorno!» disse subito. «Buongiorno!» risposi. «Mi scusi, lei ha già fatto la scelta?» aggiunse dopo. Rimasi stranito. «Mi perdoni, signore, ma ho paura di non aver afferrato!». «No, dicevo. Lei ha già fatto la scelta?». «In che senso, la scelta?». «Ah, dunque non sa. Eh già, come potrebbe? In breve, lei ora deve scegliere fra due opzioni. La prima sarebbe quella di restare sostanzialmente sulla terra, anche qui nei paraggi dei suoi luoghi di origine. Però, in nessun modo lei potrà rincontrare i suoi cari, gli amici, la gente che ha conosciuto in vita. Semplicemente, non la vedranno mai, anche se…». «Anche se…?» lo incoraggiai a terminare la frase. « Anche se, capita ogni tanto che i viventi riconoscano fugacemente in un volto proprio quello di un dipartito. Ma, di solito succede stando in macchina nel traffico o quando il treno comincia a lasciare la stazione, in modo da impedire ogni possibilità di un effettivo riconoscimento».
Allora io chiesi: «E, mi scusi, ma allora il sepolcro, non ci torno, magari la sera?». «Ah no, quello è per i viventi, come dire, è una facciata per consolidare la visione che essi hanno dell’ordine naturale delle cose. Lì dentro c’è un corpo. Lei ora è un’anima». Allora domandai: «E la seconda opzione?». E lui, un poco sorridendo, rispose: «Beh, la seconda opzione è quella di intraprendere un lungo viaggio, ancora più lontano dal concetto dell’esser qui. Se lei si incammina verso la collina, là dove c’è quell’uliveto, vedrà che le mura del cimitero saranno per lei come aria, ci passerà attraverso e la strada prenderà a salire lentamente, un po’ come quando decolla un aereo. Quella strada potrà percorrerla senza stanchezza anche quando le sembrerà di essere arrivato dall’altra parte del pianeta. Si tratta di un cammino di conoscenza e di crescita, vi incontrerà tantissime altre anime con cui potrà avere delle relazioni di empatia pura, completamente disinteressate. Per intraprendere questo viaggio, basta dimenticare i punti di riferimento terreni e lasciarsi semplicemente andare. Tenga infine conto del fatto che la scelta è indifferente, in entrambi i casi lei farà un percorso di crescita, di elevazione e le due scelte potranno essere modificate a piacere. Perciò, potrebbe anche restare qui per un po’ di tempo e poi decidere di partire». E così dicendo, semplicemente svanì.
Io decisi di restare per un po’ e anche se non potevo semplicemente tornare a casa, aprire la porta, posare le chiavi sul mobile all’ingresso nell’elegante vassoio d’argento e chiamare i miei cari dicendo:«Sono a casa!», volevo rivalutare il mio mondo da un’ottica nuova, ora che la finitudine era per me un fatto realizzato e non più potenziale. Volli vedere cosa c’era di vero in quella mia suggestione che mi rimandava costantemente ad un’assolata domenica di viaggio in autostrada, con gli eterni oleandri a separare le carreggiate e presso cui avevo sempre creduto di dover incontrare un giorno il mio destino. Ma, per quanto la guardassi, l’autostrada si dimostrò essere solamente quello che era: un’autostrada. Passai da certe stradine e mi affacciai all’interno delle case e guardai tutto con occhi nuovi: diffidenza e sospetto si erano trasformati in compassione perché non ero più condizionato dall’esigenza dell’infinito restare quanto piuttosto ero ormai consapevole del transitorio dover andare. Solo in un caso sin oggi ho voluto riapparire ad un vecchio seccatore che bullizzava un anziano. Lui fumava e prendeva il caffè contemporaneamente, mentre sfotteva quel povero vecchio. Mi concentrai e di colpo spuntai davanti ai suoi occhi da dietro un angolo. Appena credette di avermi riconosciuto, sputò fumo e caffè, tossì, respirò a fatica, starnutì, provocando le risate di tutti i perdigiorno ludopatici che tenevano un occhio a lui e l’altro al video del bar scommesse, controllando i numeri del lotto ogni cinque minuti.
31 gennaio 2025 – © riproduzione riservata