L’albo non fa il monaco
[di Ernesto Giacomino]
Una volta le notizie si distinguevano in vere e false. Ora, con il proliferare delle testatine paragiornalistiche online, si stemperano in varie gradazioni di colore: vere, semivere, semifalse, bufale, miste e bocconcini alla panna. Le famose “pagine sponsorizzate”, per cui si guadagna sui click: più vaccate scrivo nel titolo, più attiro il lettore, più ricevo soldi dai banner pubblicitari che ospito sul sito. Lo strumento sbagliato per le persone sbagliate.
Dice: l’Italia è settantasettesima al mondo per libertà di stampa. Occorrerebbe non confondere libertà con verità, però. Scrivere il quasi falso non discende necessariamente da censura o paura di ritorsioni: a volte, semplicemente, conviene. E Battipaglia, su questo, è terreno più che fertile. Tutto sommato la cronaca offre poco, e la politica è sufficientemente coperta dalle pagine locali dei quotidiani nazionali. Che si fa, allora, per guadagnare visualizzazioni e accontentare gli sponsor? Semplice: si semi-inventa. Cosicché ecco che un normale posto di blocco in litoranea diventa un “blitz antiterrorismo”, o s’intitola “evaso pericoloso rapinatore” un pezzo su uno scippatore che s’è allontanato di otto metri dai domiciliari. Titoloni che a volte risultano più lunghi degli stessi articoli, e articoli che spesso risultano più puerili di un tema d’elementari. Perché in fondo la mission è cambiata: non serve informare, basta allarmare. Giacché – evidenza insegna – non saranno in tanti, una volta donato l’agognato click, a leggersi il resto del pezzo.
La cassa di risonanza di tutto, ovviamente, è rappresentata dai social. La bufala sgrammaticata parte dal portale di turno, viene condivisa senza lettura, vai con il like, le faccine d’indignazione, e i commenti “skuoiamoli vivi1!” e “ha kasa loro”, e trucchetto riuscito. Se il tutto, poi, lo utilizzi in un contesto delicato e istituzionale come quello della campagna elettorale battipagliese, non è difficile immaginare la portata – biblica – del danno comunicativo.
Perché il business ha svilito anche il livello, c’è poco da fare. I web-writers sono pagati millesimi a battuta, manco fossero dattilografi o correttori di bozze, col frustino sul dorso che li spinge verso la quantità, non certo verso la qualità. Men che mai verso la fondatezza. Perchè è più facile rendere credibili le cose inventate che interessanti quelle reali: mestiere, quest’ultimo, del vero giornalista. Tutt’altra cosa, rispetto al pagare un’iscrizione tra i pubblicisti e illudersi che questo solo fatto, di botto, conferisca intellettualità e capacità sintattiche (se non ortografiche) superiori. Quelle, se ci sono, esistono a prescindere: nel cronista come nel maniscalco, nel politico come nel contadino. E rappresentano il vero distinguo tra una tendenza sottomessa all’informazione e l’informazione sottomessa alla tendenza.
Quando invece l’obiettivo, per paradosso, diventa quello di non farsi leggere, saltano tutti gli equilibri. Sulla pagina-business una lite tra vicini deve diventare una pericolosa aggressione, un tamponamento nel traffico una tragedia sfiorata, un complimento un’inaccettabile molestia.
Occorrerebbe un’altra classifica, insomma. Non della libertà, di stampa: ma della liceità.
4 maggio 2016 – © Riproduzione riservata