L’angelo dell’inverno
[di Ernesto Giacomino]
Alla fine sì, siamo una grande città. Una metropoli, un capoluogo di qualcosa: se non della provincia, o d’una circoscrizione, o di un ammasso a caso di chilometri tra costa ed entroterra, almeno dell’indifferenza. E non per non averla vista, Iryna, mentre su quel marciapiede pareva che dormisse. Non perché non ce ne siamo accorti, no, che in un gennaio così freddo ci fosse qualcuno in strada riparato dai cartoni. Siamo metropoli, megalopoli, capoluogo, perché abbiamo finalmente fatto il salto di qualità: c’è parso del tutto normale. Fisiologico, congenito, dovuto. Abituati, chissà da quando e chissà come, a quella stratificazione sociale che distingue tra omologhi e diversi; certi d’essere arrivati a quel punto evolutivo che ci legittima a lasciare qualcuno indietro; a quella sfida “dentro o fuori” in cui la pretesa d’un benessere dovuto può – se non deve – trascinarsi vittime del cosiddetto “fuoco amico”. Tanto da concederci, finalmente, anche noi come i residenti delle città più blasonate, il lusso d’una porzione di invisibili da ostentarci a vicenda come termine di paragone tra il loro disagio e i nostri traguardi.
Non l’abbiamo notata, Iryna in mezzo al freddo. Non l’abbiamo vista, stretta tra sé stessa e nell’abbraccio immaginario di un caro perso in patria, martoriata da una guerra da cui non sfuggi neanche se lontana. Non c’è parso – né ci parrà mai – anormale, cinico, spietato, che in una città che abbonda di cemento non esistesse un posto adatto a ospitarla. Un fuoco per riscaldarla, un passante che si chiedesse se aiutarla. Tutti distratti, presi da questa corsa da fermi in cui c’è troppo tempo da perdere per temporeggiare a perdersi nei dubbi.
La beffa del destino, insomma, dell’illusione di sentirsi al sicuro in quelle terre raggiunte con sudore; e dove, le dicevano, il grosso dell’investimento era stato fatto in civiltà.
Non sappiamo se si sarebbe salvata, Iryna. Il referto medico ha parlato di un cuore che ha ceduto; ma non la merita, come essere umano e compagna d’ognuno in quest’arca gigantesca della vita, l’ipotesi della rassegnazione a priori e del “tanto non si sarebbe potuto fare niente”. Non ci assolve, né tantomeno ci giustifica dall’esserle passati accanto per giorni, forse mesi, e aver catalogato nell’alveo del normale lo strazio delle sue difficoltà. Noi come cittadini, noi come comunità. Noi come istituzioni.
Perché l’aiuto non si chiede, così come non si chiede l’ossigeno per respirare. Mostrarsi per come si è, per quello che si ha, a volte già vuol dire quello: il timido desiderio di una vita dignitosa, l’urlo d’una educata disperazione, incartata nel silenzio per la paura di disturbare troppo.
L’augurio che possiamo farci, allora, l’unico che possa davvero avere un senso, è che questo viaggio di Iryna verso il suo arcobaleno ci abbia lasciato almeno il dono di averci aperto gli occhi. Che ci abbia bruscamente, tragicamente educati a riconoscere nel tuono – negli occhi lucidi, in un tremolio di mano, in un passo zoppicante – l’avvicinarsi d’una tempesta per la quale offrire riparo.
Per il resto, tutto il resto, sopravvive la sola speranza del perdono.
11 febbraio 2023 – © riproduzione riservata