Malanno che verrà
[di Ernesto Giacomino]
C’era un vecchio adagio che recitava: “per giudicare la grafia di qualcuno ti basta guardare, per giudicare ciò che scrive devi almeno saper leggere”. E niente, una cosa che mi sovveniva stamane, davanti scuola, all’ennesimo summit medico-virologico-farmaceutico di mamme inferocite per questo fatto che la Regione, o il Comune, o l’Onu, o almeno l’amministratore di condominio di concerto col circolo parrocchiale, sentito il parere della scuola di taglio e cucito della sora Marietta, non avessero ancora deciso l’abrogazione definitiva, fino alla laurea, della frequenza scolastica in tutte le aree situate nel medesimo sistema solare in cui si abbia avuto sentore della presenza non solo di un qualunque virus, ma anche di una piattola, un acaro, un verme solitario.
Disturbi bipolari del peso e delle misure, se è vero che in tempi d’allerta meteo e conseguenti chiusure scolastiche precauzionali, per dire, è invece tutta una levata di scudi contro l’eccesso di cautela, l’inutile allarmismo, e che saranno mai due botte d’acqua a sti ragazzi, ci vengono su più sani e rigogliosi e anche con quel tantino d’umidità ossea che per mantenersi elastici e idratati non guasta mai.
E via così, allora. Luoghi comuni, sentito dire, proverbi della nonna. L’omeopatia del confronto dialettico. Il vero moderatore, collettore, supervisore delle criticità sociali è ormai diventato il chiacchiericcio, il brusio diffuso di protesta, il “non lo so come si fa ma tu lo fai sbagliato”: difficile, messi così, che si trovi armonia finanche a organizzare una sagra rionale, figuriamoci a gestire un’epidemia.
È un punto di non ritorno in cui anche l’informazione non serve più, perché se funziona “allora è pilotata”, e se non funziona fa vuoti comunicativi che lo sciacallaggio mediatico ci mette poco a riempire con ambiguità e approssimazione.
Capiamoci: è un problema d’approccio culturale ad ampio raggio, non c’entrano né livelli d’istruzione né eventuali mansioni operative sul campo: personalmente, riguardo a quest’emergenza sanitaria, ho ascoltato sprechi d’inesattezze anche da parte di gente che teoricamente avrebbe dovuto essere preparata in materia. Ciononostante non ne condanno le lacune, ma la colpevole – se non dolosa – inconsapevolezza di averle: ché parlare a schiovere con l’intenzione di non dire nulla è arte, ma farlo convinti che ogni opinione personale sia scienza infusa è patologia.
Perché quello di stabilire e rispettare i ruoli, diciamocelo, è un concetto che al di sotto dell’Appennino tosco-emiliano non riusciamo proprio a metabolizzare, chi sarai mai tu per dirmi che la fusione nucleare a caldo è pericolosa se proprio l’altro ieri il cognato della cugina della mamma del salumiere sotto casa m’ha riparato il phon con giusto una pinza e un giravite e non s’è nemmeno fatto pagare.
È per questo che a distanza d’anni finalmente comprendo il senso di quando, da bambino, intervenivo nei discorsi da adulti e i miei genitori mi bloccavano con quel “tu pensa a fare il figlio”. Che non era uno sminuimento del mio ruolo, né una loro autoattribuzione di un privilegio: ma semplicemente – e coscientemente – la più chiara e razionale statuizione delle rispettive responsabilità.
7 marzo 2020 – © Riproduzione riservata