“Mamma, ho mal di pancia”

Come i bambini manifestano il disagio

[di Anna Lambiase, psicologa, esperta nei disturbi dell’apprendimento]

Quando siamo arrabbiati, delusi o amareggiati, noi adulti utilizziamo diversi codici comunicativi per esprimere il nostro disagio interiore. Il più delle volte, perché abbiamo raggiunto una certa maturità non solo dal punto vista caratteriale, ma anche perché il nostro sistema cognitivo e determinate aree del cervello si sono ben sviluppate. Riusciamo ad astrarre e decodificare ciò che ci circonda con molta più facilità. Esempio: se sul posto di lavoro un collega con il quale abbiamo un buon rapporto, ci risponde male senza motivo, possiamo supporre che abbia un problema a casa o che stia attraversando un momento difficile.  Abbiamo, praticamente, più strumenti cognitivi che ci permettono di non somatizzare tutto ciò che avviene. 
Per i più piccoli esprimere il proprio stato emozionale non è semplice. Prima di tutto, le aree deputate alla regolazione delle emozioni non sono ancora del tutto sviluppate e ciò comporta reazioni fisiologiche non sempre pertinenti al contesto, come un capriccio eccessivo o un pianto interminabile. Il modo più diffuso per esprimere un proprio malessere è il famoso “mal di pancia”. Attorno ai 5 anni, i bambini cominciano ad avere una visione più ampia del mondo che li circonda. Cominciano maggiori interazioni con gli adulti e se un amichetto non vuole giocare è “perché ce l’ha con me”, non vi sono alternative. Per i bambini, il canale verbale non è ancora un mezzo per esprimere il proprio mondo interiore. Il bambino, lo sta ancora costruendo. E quindi tende a somatizzare, cioè ad utilizzare il corpo come strumento di comunicazione, come ponte tra “sé e il mondo esterno”. Il mal di pancia, come la pipì a letto, la mancanza di sonno, sono tutti campanelli di allarme e servono a mettere in allerta le figure adulte che ruotano attorno al mondo del bambino. Il più delle volte i genitori si trovano disorientati difronte queste manifestazioni di malessere. Non riescono a trovare una causa concreta (ovviamente con i dovuti approfondimenti clinici, dobbiamo escludere qualsiasi causa organica) e, disarmati nell’aiutare il proprio bambino, diventano il più volte ansiosi. 
L’errore più frequente è quello di sottovalutare o sopravalutare il problema, magari esprimendosi in modo erroneo (muoviti, non hai niente!) oppure diventano ripetitivi (cosa hai, dimmi cosa c’è? e parla!). Quali strategie possono aiutarci? Innanzitutto, trovare un tempo di ascolto idoneo, parlare con calma e rassicurazione e non far sentire a disagio il bambino per la sua reazione psicosomatica. Poi, osservatelo. Osservare attentamente significa vedere il prima e il dopo di un comportamento problema. Se ha determinati malesseri prima di andare a scuola o andare a nuoto o da qualche parente, possiamo cominciare a porci domande significative. Fondamentale, non sforzare il bambino. Otterremmo solo l’effetto opposto e ancor più rinforzato. E rivolgetevi ad un esperto che, con opportuni strumenti d’indagine, vi possa aiutare a capire se c’è un problema un po’ più serio. Ricordate che i primi terapeuti dei bambini sono i genitori e solo con una buona alleanza in questa relazione possiamo aiutare i bambini a sconfiggere i loro malesseri.

16 gennaio 2021 – Riproduzione riservata

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