Modici in prima linea

[di Ernesto Giacomino]

Mentre s’attendono gli sviluppi della diatriba sull’Ospedale Unico della Valle del Sele, qua a Battipaglia ci si sta comunque già allenando all’idea. Non tanto sulle espressioni “ospedale” e “Valle del Sele”, quanto sull’aggettivo “unico”. Unico, per dire, il paziente che riesce a sfangarla alle porte del pronto soccorso: il resto, tutti in sala d’aspetto a svernare per ore (ché c’è il personale all’accettazione, per dire, che è talmente sensitivo da riuscire a soppesare la gravità della tua patologia senza mai alzare gli occhi dalla tastiera del computer). Unico il medico, pure, spartito in vari pezzetti fra i reparti, che per vederlo per intero occorre che ti faccia un tour in day hospital con la colazione al sacco. Unico il parcheggio che ti puoi permettere (un euro e mezzo al club automobilistico per pagargli addetto e gabbiotto senza alcuna garanzia che dentro poi il posto lo trovi davvero), perché a esagerare con le riuscite e le rientrate per recuperare mutande e sottanine della nonna ricoverata ci rimetti la paga di un giorno. Unico il caso d’un apparecchio per le radiografie scassato da mesi, ed Eboli, Salerno, Vallo, eccetera, che ringraziano per gli accalcamenti da concerto rock che hanno smentito tutti i censimenti sulla densità demografica degli ultimi venticinque anni.

Piano con le querele, eh: scherzo. Cioè: mica tanto, poi. Diciamo che esagero. Quel tantino per strappare un sorriso su quest’aspetto logorante del quotidiano che va sotto il nome di malasanità. Che non è quella importante, pomposa, sensazionalistica, che leggiamo ogni tot sul giornale: pinze negli stomaci, neonati scambiati, farmaci scaduti. Quello là, diciamo, è un malessere antico, di stampo istituzionale, da cui qualunque operatore sanitario, dai primari agli uscieri, può uscirsene con una lavata di mani e blaterando la solita solfa sullo Stato assente, la cattiva organizzazione, i tagli alla spesa. Mezze verità, come no, ma sufficienti a inculcare il beneficio del dubbio.

La malasanità che dico io, quella più piccola, locale, è invece prevalentemente figlia degli uomini. La sua cura non pretende sforzi di budget e studi manageriali di strategie a lungo periodo, ma semplicemente disponibilità, collaborazione, compassione, carità cristiana. L’illuminazione, quantomeno, sul fatto che quel bonifico puntuale del ventisette del mese arrivi dalla tasca di quelle stesse persone messe in fila senza cortesia dietro un interfono e un vetro antiproiettile: come non fossero pazienti, malati, disagiati, ma benestanti eccitati al check-in di un volo per le Maldive, con l’addetto invidioso che guarda sottocchio lo scorrere dei bagagli sul rullo. La percezione che la richiesta d’informazioni o assistenza da parte un parente di un degente possa avere, ogni tanto, una qualche priorità rispetto alle discussioni in medicheria sul piano ferie o le maggiorazioni per gli straordinari. Il sospetto che un sorriso e un per favore, anziché uno sbuffo e un imperativo, non siano eccezioni da lesinare con parsimonia a seconda dell’umore e dell’oroscopo del giorno, ma precise, diffuse e condivise regole di buona educazione che già a mio figlio di cinque anni viene spontaneo osservare.

Sarà un mestiere difficile, il vostro, e chi lo mette in dubbio. Ma ogni tanto, tra le voci di quella busta paga su cui rumorosamente vi confrontate nelle salette dei reparti, leggeteci anche la parola “umanità”.

27 marzo 2014 – © riproduzione riservata

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