Passaggio a Nord Ovest

[di Ernesto Giacomino]

Dice che ormai è risaputo, che non vado manco ascoltato, che talmente è radicata la mia avversità “de panza” per lo svincolo autostradale battipagliese e connesse urbanizzazioni che non riuscirei a essere obiettivo neanche se mi ficcassero in gola il siero della verità di Diabolik.

E sì, e forse, e quasi. Epperò. Facciamo così: stavolta non parlo della parte carrabile, va’. Dei cavalcavia che non cavalcano e delle rotatorie che non ruotano; delle corsie che si spintonano e degli ingorghi nelle ore di punta uguali – se non peggiori – a quelli di trent’anni fa.

No, no: stavolta parlo della parte pedonale. Dei marciapiedi, delle vie di fuga, della tutela dell’incolumità di chi da quelle parti ci bazzica senza ruote. Inerme, leggero, nudo e crudo. Un viandante da o per Belvedere: cioè, quell’ampissima frazione di città che cotanta impresa faraonica, nei piani iniziali, avrebbe dovuto avvicinare. E che invece ha finito per far diventare un miraggio, un non-luogo, una destinazione leggendaria: roba che un ipotetico movimento complottista nostrano (che ne so, “i battipagliapiattisti”) potrebbe assurgere a leitmotiv delle proprie teorie affermando che non esiste (“Papà ma oltre la rotonda dell’autostrada cosa c’è?”, “Un laboratorio segretissimo di esperimenti genetici che i poteri forti noncielodicono”).

E comunque. Soprassedendo sull’utilità dell’ampissimo marciapiede di contorno al “giardino” centrale della rotonda, comodamente raggiungibile sparandosi con la tuta alare da un qualunque palazzo alto di Bellizzi, ciò che a tutt’oggi desta perplessità è quel buco sotto il cavalcavia che unirebbe la zona “cooperative” di Belvedere (altezza tra via Coppi e via Vicinanza, giusto per orientarci) col quartiere Fiorignano. Che visto così, è chiaro, parrebbe un evidente errore di costruzione: “mastro, so’ finiti i mattoni, qua dentro che ci mettiamo?” “Usalo per ripostiglio, poi a cose fatte si vede”.

Cioè, sta come stava allora: grezzo, spoglio, dimesso. Lercio, è ovvio. Non gli si darebbero due lire, insomma: e invece, signori, rullino i tamburi, quello è il sottopasso pedonale ufficiale dello svincolo. E se non se ne parla – e parecchi ne ignorano addirittura l’esistenza – è semplicemente perché non lo si usa: o almeno, non per lo scopo per cui è nato. Tutt’al più, al momento, viene comodo come microdiscarica volante, va’. O come alcova per coppiette con molta fretta e poche esigenze estetiche.  

Strano, no? Eppure è unico e solo, e d’una comodità spiazzante: metti tu sia sulla nazionale, per imboccarlo devi solo farti un paio d’isolati interni, sbucare su via Fiorignano, circumnavigare l’area dell’ospedale e riguadagnare la nazionale. Con una corsetta campestre, insomma, ci si stancherebbe di meno.

Qualcuno dirà che di contrappeso c’è quel fatto della sicurezza, che così facendo non s’è comunque costretti ad attraversare le ben due corsie a scorrimento veloce (quella d’ingresso e quella d’uscita dall’autostrada) che per un pedone rappresentano tipo una roulette russa a motore.

Peccato, però, che sia più pericoloso intrufolarsi in un anfratto buio e maleodorante, specie a sole calato e dintorni deserti. Ma non sia mai, è evidente, che un’opera d’arte di tale portata subisca l’onta d’una ripulita e un paio di lampadine.

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