Quasi umani

[di Ernesto Giacomino]

Chiaro che, al di là di sensazioni e pareri personali, ora c’è gente accreditata messa là ad appurare fatti e responsabilità. Non ci compete il giudizio, voglio dire; per quanto resti quell’ennesima boccata d’amaro in bocca: l’ululato d’una sirena lontana di cui non comprendi distanza e direzione, ma che irrazionalmente ti fa già cercare un varco in cui appartarti per lasciarle strada. Affinché, insieme a lei, ti sopravanzi quella cappa di pessimismo e scoramento che ti assalgono quando si parla di sanità.

Perché il dramma della bambina intubata al Santobono per presunto lassismo del personale ospedaliero battipagliese ci ferisce e intristisce, ma purtroppo non ci sorprende. E se da un lato corre l’obbligo morale di affidarsi alla ragione e alla valutazione degli esperti, dall’altro non possiamo ricacciarci in gola quel sentore d’imprevedibilità quando approcciamo col servizio pubblico.

Qui come altrove, eh: in provincia, nella regione, nel Meridione. E anche in tante altre zone dimenticate della sedicente Italia “industrializzata”.

Sarà come dice il governatore, per carità: personale carente, bilanci in deficit, spesa sanitaria ridotta all’osso, per cui col poco che c’è – e i pochi che ci sono – già è un miracolo che abbiamo ancora stanze e macchinari anziché tende da campo e bisturi giocattolo.

Epperò, pur volendo accogliere questa tesi, quella media di dieci-venti persone schiacciate dalle quattro alle dodici ore nella sala d’aspetto di un pronto soccorso, senza aver manco beneficiato d’un accenno di triage (salvo voler considerare triage una richiesta di dati anagrafici, un “che vi sentite?” e un “accomodatevi là”) sommano un problema diverso dal fatto economico. Che sarà anche vero che parecchi si catapultano in ospedale pure per una pellicina d’unghia strappata, ma se ti busso allo sportello dicendo che ho mal di stomaco può essere un reflusso come un infarto, non è che puoi stabilirlo semplicemente guardandomi la tessera sanitaria.

Oltre il cash c’è altro, insomma: in primis, un sovraccarico di pazienti verso cui ci si trova ancora – dopo anni – costantemente impreparati. Diretta conseguenza d’un depauperamento generalizzato di orari di studio, mansioni e attitudine alla reperibilità dei medici di base: tutt’un alleggerimento che in teoria avrebbe dovuto essere assorbito dai presidi di guardia medica, ma che in pratica – avendoli lasciati a mezzo secolo fa, con gli stetoscopi a manovella e qualche blister di tachipirina scaduta – s’è sversato dritto per i corridoi degli ospedali.

In secundis, poi: le strutture le fanno gli uomini. E gli uomini non possono schermirsi da solidarietà e responsabilità additando – per paradosso – la fatiscenza di quelle stesse strutture di cui fanno parte. Un poliziotto senza auto non rinuncia a inseguirti, un notaio senza computer si batte l’atto con l’Olivetti. Un ragioniere sotto scadenza, a calcolatrice andata, i conti se li fa con carta e penna.

Si chiamerebbe, boh, professionalità, o deontologia. Ma a me piace più quel termine là: empatia. Mettermi nei panni d’un altro a cui il mio lavoro apporta un beneficio; fare gruppo, squadra, specie. Umanità.

E quindi, piccola, ti auguriamo di averle davvero trovate tutte così, le persone che ora hanno in mano la tua vita.

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