Questi fantasmi
[di Ernesto Giacomino]
Non solo il commissariato abbozzato di via Gonzaga, non solo l’ex tabacchificio senza un’idea di destinazione. Non solo quell’area incolta di via Turco su cui ruzzola ancora qualche pietra dello zuccherificio. Di edifici malati, agonizzanti, morenti che raccontano Battipaglia, quello che era, quello che avrebbe potuto essere, quello che non è stato, in realtà ce n’è uno stuolo.
Opifici, palazzi, strutture abbandonate o quasi, chi ridotto a relitto e chi – tra assegnazioni frettolose di tribunali o speculazioni locative sulla pelle dei disperati – parzialmente riutilizzato con altre ambizioni e destinazioni. Mura che così, di colpo, riemergono tra rottami ed erbacce; spesso rimaste uguali nel tempo, manco riverniciate, con ancora scritte e invettive a spray di mezzo secolo fa: slogan e stemmi di lotte di classe, di conquiste sociali, di scontri ideologici ormai seppelliti nella preistoria politica.
Tutto, messo insieme, fa più che un ricordo: fa identità collettiva. Fa da base, da colonna portante della nostra etica cittadina, della nostra coscienza civica, della nostra educazione. Di quel pezzo di vissuto che, volontariamente o meno, tramandiamo ai nostri figli. Il binario della memoria che in petto ci fa, insieme, orgoglio e rammarico.
Il “frigorifero” dell’azienda agricola Romano, ad esempio: in via Nazario Sauro, un passo alle spalle della Salus. Quel binario sopraelevato, raccordo diretto con la stazione per spedire frutta all’Europa intera. C’è tutt’altro, oggi: appartamenti, negozi, attività. Ma il binario no, quello è rimasto; e, con lui, l’illusione che il vento possa ancora trasportare – chissà da dove – l’eco dello sferragliare dei vagoni. E ancora: la maestosità decaduta dell’Agrosele, in via Spineta. Negli anni ‘70, una distesa d’appezzamenti, capannoni, operai a frotte. Nel presente, invece, un lungo cancello arrugginito di guardia a un gigante scrostato. Qualche luce, alle volte. Qualche camion in uscita. Qualche metro quadro affittato al volo per farci chissà cosa e chissà da chi.
Proseguendo su quel lato, poi: la Wührer. Dicono che ora sorgeranno case, lì dentro. Per ora, devastata e inquietante, permane la carcassa dello stabilimento, lasciata come dichiarazione e dimostrazione d’impunità per qualunque industriale del Nord venga qui a investire: arrivo, apro, assumo, spremo, licenzio, chiudo. A mio totale piacimento, e che nessuno s’azzardi a fiatare.
Ultima in elenco, poi, ma ai vertici per la valenza storica e l’affezione popolare, una strana coppia: lo stadio Pastena e la Paif. Diversi i costruttori materiali, uguale il padre fondatore: don Luigi Pastena, imprenditore conterraneo, geniale e lungimirante, che da solo seppe donare a Battipaglia decenni di riscatto economico, sportivo, sociale. Quelle due costruzioni, seppure nate da contesti diversi, pesano oggi sulla storia cittadina come obelischi morali: materialmente distruggibili ma ideologicamente indistruttibili. Legate da un invisibile filo vitale al loro intestatario e proprietario: svettanti, efficienti e in pieno splendore fin quando, forte e attiva, c’è stata la sua mano a prendersene cura. Mura da mercato l’uno, invece, e immobile da annunci giudiziari l’altro, ora che il tempo – ancora una volta – ha negato ai giganti l’immortalità terrena.
9 aprile 2022 – © riproduzione riservata