Sarà la nostalgia

[di Ernesto Giacomino]

Di qui a un tot di millenni, quando noi battipagliesi saremo una civiltà decaduta e ci saranno spedizioni archeologiche a cercare rovine sotto il terriccio intorno al Tusciano, le prove che indiscutibilmente identificheranno le nostre necropoli saranno i totem. Non quelli dei nativi americani, ovviamente; non quei tronchi alati decorati a mano per ingraziarsi i favori di qualche divinità: i nostri, di totem, saranno di buste e cartoni, fiaschi vuoti e contenitori di pizze. E tutti ben saldati, ancorati, sigillati intorno a un qualche contenitore pubblico messo lì per raccogliere altro e puntualmente scambiato per centro strategico di raccolta della monnezza.

Insomma, solo quando i ricercatori troveranno tali reperti storici si convinceranno senza ombra di dubbio che lì vivevamo noi. Perché ciò che non succede nemmeno nell’antro più suburbano e malfamato di un qualunque villaggio rimasto ai livelli di civiltà degli Unni, qui da noi è la regola. Unici e soli al mondo, noi, a rappresentare una contraddizione ambientale che manderebbe in psicoanalisi il più ferrato degli antropologi: da un lato un’adesione alla raccolta differenziata che rasenta la totalità, spingendoci ad essere – in tal senso – uno dei comuni più virtuosi d’Italia; dall’altra quest’inspiegabile convinzione che un qualunque recipiente pubblico poggiato per strada per fini comuni sia una sorta di segnale convenzionale che autorizza chiunque a depositarci accanto (o più spesso sopra, se non addirittura dentro) ogni sorta di rifiuto che scientemente – e misteriosamente – decidiamo di sottrarre dai conferimenti istituzionali.

Quasi fosse un obolo che restituiamo a madre terra, un tributo simbolico per auspicarci prosperità e fecondità in casa. Cominciammo con i comuni cassonetti, lo ricordo. Umido buttato di fianco alla plastica, divani e frullatori accatastati intorno al secco. Si proseguì poi con le campane del vetro: non solo il ditino stanco si autodispensava dal ficcarcele dentro, quelle bottiglie insozzate, lasciandocele intorno a mo’ di aiuola artificiale; ma addirittura – trovandoci facendo – accanto all’abbandono dei bustoni col vetro cominciammo ad affiancarci umido, indifferenziato, carta e cartone, giocattoli rotti e scorie nucleari.

C’era anche una sorta di logica malata, in questo, una certezza sul buon cuore dell’autista di turno, come se ogni volta ci dicessimo tra noi e noi: “visto che i camion della raccolta si fermeranno a svuotare le campane, che vuoi che gli costi tirarsi su pure questi innocui sacchetti?”. In realtà c’era, sì, la malattia, ma senza alcuna logica, salvo inventarsi un improbabile nesso funzionale tra Alba Nuova e Alba Buona, tra nettezza urbana e pazienza umana.

E ora, venghino signori venghino, l’eccellenza. Da mesi non ci sono più nemmeno le campane del vetro, ma quanto a rendere cloache intere strade del centro non demordiamo. Ora, per punto di raccolta, sfruttiamo i contenitori per il deposito degli abiti usati, roba che con l’immondizia non c’entra niente e tantomeno con chi è deputato a prelevarla. Assurdo ma vero, insomma: parecchi cittadini la spazzatura di casa la piazzano proprio lì, con la dichiarata pretesa che i furgoni delle associazioni umanitarie che gestiscono le operazioni di raccolta degli indumenti si prendano carico anche delle sozzerie di casa loro.

Un festival dell’inciviltà – e dell’imbecillità – sulle cui motivazioni, tra millenni, l’archeologo non troverà una risposta. E, ovviamente, ci riseppellirà lì dove ci ha trovati.

26 aprile 2013 – © riproduzione riservata

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