Saudade | di Ornella Cauteruccio
Saudade: letteralmente “in solitudine”, ma il suo significato è molto più profondo e impalpabile. È un sentimento nostalgico che rasenta l’indolenza e la tristezza. Il rimpianto inafferrabile di qualcosa che mai sarà… o di qualcosa che è già stato. E io me ne lascio cullare, in questo pomeriggio lento di fine estate, immersa nella frescura del pergolato e nel mio libro, noncurante del ronzio insistente di un calabrone che so non badare a me, ma solo al succulento nettare degli acini già violacei che ammiccano da dietro i pampini.
Di tanto in tanto mi capita di distrarmi. Il ronzio del calabrone viene presto sostituito dal gracchiare di un motorino in lontananza che si inerpica a fatica lungo le vie che salgono tortuose dal mare verso la collina per poi disperdersi in viottoli aspri e taciturni come le montagne, verso le quali tendono. Allora diventa inevitabile volgere lo sguardo al mare: questa è la sua ora più bella. Il sole lo ha rivestito di polvere di seta luminosissima; le pieghe del suo magnifico abito sono improvvise increspature di candida schiuma create per gioco dal vento d’oriente. Tutto è perfetto per la mia saudade, anche il mesto ronzio del calabrone che ritorna, ostinatamente, alla carica mentre Sergio Endrigo canta: la felicità è come la goccia di rugiada sul petalo di un fiore: brilla tranquilla, poi oscilla un poco e cade come una lacrima d’amore… Poi arriva quella frase, e ogni tassello del puzzle va al suo posto. L’immagine si sgretola per poi ricomporsi in una nuova realtà, nell’unica possibile. Il tempo e la memoria rivelano nelle parole significati riposti: le trattano con dolcezza, circondandole dei tenui colori del crepuscolo. Alle parole e ai ricordi io mi aggrappo come a una ringhiera. (Amos Oz – Michael mio).
Nella mia nuova realtà mi ritrovo aggrappata con forza a quella ringhiera, che si affaccia sopra una sconfinata pianura di parole e ricordi. Da dietro la curva, nascosta da un imponente albero di mimosa fiorito (strano, non è il suo tempo), arriva lenta una vecchia automobile d’epoca: una spider verde oliva, lucida come appena uscita dalla fabbrica e adornata di rose bianche.
Lo seguo con lo sguardo mentre esce piano dalla macchina. Mio fratello, sorridente e affascinante come sempre. Viene a prendermi per accompagnarmi in chiesa. È il giorno del mio matrimonio. È un breve tragitto quello che mi separa dalla mia nuova vita e noi lo percorriamo insieme, scherzando come due fanciulli spensierati l’ultimo giorno di scuola, mentre ci raccontiamo la vita già vissuta e quella che vorremmo. Il paesaggio è reso ancora più splendido dal tiepido sole settembrino. L’ultima curva ci rivela all’improvviso il mare che ci osserva con aria compiaciuta e sembra indicare l’antico borgo arroccato sulla collina dalla cui chiesa, ben visibile al centro delle calle, giunge il suono impaziente della vecchia campana che ci ingiunge di affrettarci. Sono goffa nel mio abito nuziale, ho bisogno del suo aiuto per uscire. Lo saluto con lo sguardo mentre mi allontano al braccio di nostro padre. Lui sorride… e lentamente scompare.
Non trovo più la pagina che stavo leggendo, il mio libro, forse offeso dalla mia disattenzione, si è richiuso su sé stesso. Intorno il paesaggio si è rivestito di penombra e l’aria è diventata più fredda. È ora che rientri.
Ornella Cauteruccio
6 novembre 2020 – © Riproduzione riservata