Senza porte né finestre | di Iole Palumbo
L’unica volta che ho alzato la testa dal banco nella cella in cui ero stata destinata a trascorrere le mie mattinate era stato quando avevo sentito parlare delle monadi. “Sono la sostanza ultima della materia vivente, un principio unico, indivisibile e immutabile”, così aveva detto la prof e io avevo pensato che stesse parlando proprio di me. Quel giorno, mentre scaricavo il mio bianchetto sul foglio nero dell’album da disegno, avevo trovato un nome alla mia vera essenza. Come le monadi, anche io avevo una forma indeterminata, sufficiente a me stessa e senza finestre dalle quali potesse entrare o uscire qualcosa. Questo non significava certo che non avessi rapporti con l’esterno o con altri elementi, ma solo che tali rapporti nascevano esclusivamente dal mio interno, come se fossi solo io la fonte delle mie azioni.
Non sapevo neanche come fossi arrivata in terza media e tra qualche mese avrei dovuto sostenere un esame. Il primo anno, un paio di volte, mi ero alzata dalla sedia per andare alla lavagna, poi avevo capito che rimanendo seduta avrei almeno evitato i commenti sottovoce dei miei compagni quando non mettevo l’acca o dimenticavo l’accento. Ce n’era una che non aveva riso alle mie performance, era stata la mia compagna di banco per qualche mese, ma dopo dieci note di comportamento e tre corsi di recupero, la mamma le aveva cambiato scuola, mettendo così a tacere i suoi sensi di colpa per aver dedicato troppo tempo al suo nuovo compagno.
Da allora ero rimasta il numero dispari della mia classe e il banchetto singolo me lo ero riservato molto prima che il Covid 19 facesse il suo ingresso nelle nostre vite. Anche l’obbligo di distanziamento fisico aveva semplicemente seguito quello interiore che mi ero imposta.
Solitamente ero grata ai prof che mi lasciavano scarabocchiare tranquilla, ma le volte in cui mi sentivo ben predisposta avevo provato a misurarmi col manuale di storia e mi ero sentita come Davide contro Golia. Quelle volte avrei preferito che sulla mia strada si fosse intrufolato qualcuno con un briciolo di coraggio. Qualcuno capace di fermare il mio sballato percorso e rimetterlo sulla via diritta, magari con determinazione. Invece ogni quadrimestre era la stessa storia: le insufficienze a fine anno diventavano sei. Ero uno di quegli elementi da portare alla fine per sbarazzarsene presto.
L’ultima volta che misi piede in classe, ero seduta di fronte alla commissione e guardavo i docenti ad uno ad uno, negli occhi. Decisi che avrei condotto io il colloquio, spiegai a tutti che all’origine del mondo c’è un’entità infinitesimale dotata di una forza che dona la vita e che se si trova la giusta combinazione è destinata a cambiare il corso degli eventi. “Purtroppo non tutti sono in grado di inserire la chiave adatta” declamai, terminando il mio discorso. Mi accorsi che in quel momento l’unica a non avere lo sguardo abbassato ero io.
13 febbraio 2021 – © Riproduzione riservata