Sfondo perduto
[di Ernesto Giacomino]
Un po’ s’era capito dal tempo uggioso, diciamo la verità. Il cielo che sfogliava margherite di nuvole col “piovo non piovo”, e tutti a testa in giù negli armadi a fare cambi di stagione ogni otto ore come con gli antidolorifici. Come dire: un po’ di malinconia per la certificazione ufficiale della situazione, un po’ di euforia per quella giacca che sei mesi fa s’era accantonata con la convinzione di doverla buttare.
È che sarebbe circa una settimana, in sostanza, che Battipaglia è stata ufficialmente inserita fra i quarantadue comuni campani considerati “area di crisi industriale”. Non complessa, si specifica: l’equivalente della famosa locuzione “la situazione è grave ma non seria”. Un quasi-ossimoro, alla maniera delle nostre mamme di quando da bambini si sciamava per vicoli: vai veloce ma non correre, urla a bassa voce, esci subito dentro. Sulla definizione ci viene incontro il MISE (che sarebbe Ministero dello Sviluppo Economico, se non fosse così démodé non utilizzare acronimi), che dice, in sostanza: la crisi non complessa riguarda quei territori in cui la recessione economica e la perdita occupazionale non assumono, per la loro gravità, rilevanza a livello nazionale. Insomma: tutti da rimpiangere, quei tempi in cui si finiva sui tg d’Italia per storie di camorra. Con la sola miseria e disoccupazione, invece, niente: si è attenzionati solo a livello locale. Come una tangenziale, una ferrovia privata, un mini-straripamento del Tusciano.
Perché è importante, ordunque, essere comunque un’area di crisi industriale? È ovvio: per le possibilità di attrarre investimenti strutturali sul territorio. Perché eventuali industrie – nostrane o di fuori – che vengono qua a investire corrono il serio rischio di mettersi in bilancio bei milioncini di euro di contributi pubblici a fondo perduto, e corposi risparmi sugli interessi passivi per finanziamenti agevolati. E questa sarebbe la teoria. Per la pratica, in realtà, occorrerebbe fare alcune considerazioni preventive. L’evidenza storica dice, sì, che le cause ufficiali della crisi sono da ravvedersi nel loop “crollo dei consumi = calo di produzione = licenziamenti e disoccupazione = crollo dei consumi”, ma dice anche che non sempre gli imprenditori hanno attinto dagli utili accumulati e rimesso capitali in azienda, scegliendo piuttosto di chiudere e vivere (loro) di rendita e gli altri (i dipendenti) di stenti. Dice che in taluni casi ci si è trovati di fronte a scelte di gestione superficiali e scellerate, in altri a passaggi di management (vedi caso Peroni) che hanno tagliato rami produttivi solo per un discorso di allineamento a standard autopartoriti.
In altri ancora, si è assistito al famoso “prendi e fuggi” di semi-stabilimenti mai finiti ma ampiamente plurifinanziati da fondi comunitari (mai leggi come la 64/86 o la 488/92 capitarono più a pennello).
Ci sono state la congiuntura come la frode, l’imperizia come la furbizia. E a questa nuova bene-maledizione di un Ministero che ci riconosce dissestati occorrerebbe coniugarci un vero e definitivo salto di mentalità, tanto nell’attuazione degli investimenti che nel controllo. Perché qui da noi – ricordiamocelo – può non essere tutta crisi, quella che luccica.