Sguardi ciechi | di Ornella Cauteruccio
Kitty si stava crogiolando al primo timido sole primaverile quando sentì Anna che la chiamava; allora si alzò con fare sinuoso ed elegante, stiracchiandosi in tutta la sua lunghezza, una leccatina veloce per rimettersi in ordine e si avviò verso casa, dove, a giudicare dal profumino, la stava aspettando un pranzetto delizioso.
Già da qualche settimana si vedevano pochissime automobili in giro e anche pochi umani, solitari e frettolosi, con lo sguardo accigliato e sempre stranamente bardati con una mascherina sulla faccia, così attraversò con disinvoltura. La sua intelligenza felina non le consentiva di capire come mai, da un giorno all’altro, il mondo intorno avesse rallentato di colpo, fin quasi a fermarsi completamente, però c’era di buono che adesso Anna non andava più a lavoro ed era sempre in casa a preparare deliziosi manicaretti! L’unico aspetto negativo era rappresentato da quelle fastidiose sirene che si sentivano a tutte le ore, anche nel cuore della notte: instancabili demoni che squarciavano la fragile tregua notturna e costringevano a fare i conti con la realtà. Qualche tempo prima uno di quei demoni era venuto sotto casa e aveva ingoiato la mamma di Anna, senza più restituirla. Kitty ricordava chiaramente le luci rosse accecanti e le lacrime silenziose di Anna, mentre si stringeva tremante nella vestaglia lilla… così pensando si avviò allegramente verso il portone, pregustando già il pranzetto che l’attendeva.
Adele aveva spazzato accuratamente ogni angolo della cucina per eliminare tutte le schegge di vetro, anche le più piccole e così si era fatta mezzanotte. Quando ebbe finito si guardò a lungo nello specchio del bagno: l’occhio le si era gonfiato e il polso le doleva, in compenso il labbro superiore aveva finalmente smesso di sanguinare. Pensò, con una punta di disperata ironia, di essere stata comunque fortunata: nei giorni seguenti non sarebbe ancora rientrata al lavoro per via dell’isolamento forzato dovuto all’epidemia, così non sarebbe stata costretta a dare spiegazioni, arrancando sugli specchi per trovare l’ennesima strampalata giustificazione per i suoi lividi, e, soprattutto, avrebbe evitato quegli sguardi, dapprima increduli, poi sempre più impietositi e, negli ultimi tempi, accusatori. Non riusciva più a sostenerli: cosa potevano mai saperne loro del suo inferno quotidiano, della sua solitudine, del terrore di rimanere completamente sola, di non sapere dove andare… in fin dei conti lui le voleva bene e, dopo la rabbia, era ancora capace di momenti di tenerezza; con il tempo sarebbe cambiato, si trattava solo di essere paziente.
La mattina dopo l’avrebbe vista soltanto Anna. Non erano mai state amiche, benché vicine di casa; solo un saluto cortese quando si incrociavano sul pianerottolo, ma dopo l’inizio dell’isolamento forzato avevano preso l’abitudine di incontrarsi, ognuna sul proprio balcone, per scambiare qualche chiacchiera e tenersi compagnia durante le ore, soprattutto dopo quella notte, quando l’ambulanza si portò via la signora Rosa, lasciando Anna nella più totale disperazione.
Adele lo sapeva. Sapeva che Anna li sentiva urlare, che conosceva perfettamente la profondità dell’abisso dov’era precipitata, ma dal suo sguardo non traspariva alcuna pietà e neanche l’accusa di debolezza che sempre più spesso si sentiva rivolgere. In quello sguardo aveva ritrovato la sua stessa identica profonda solitudine, e si era sentita, dopo tanto tempo, finalmente a casa.
Quando finirà questa epidemia forse troverà la forza di lasciarlo, forse troverà il coraggio di chiedere ad Anna di andare via con lei in una nuova città, dove poter guarire dai lividi e dimenticare insieme le urla strazianti di quelle maledette sirene. Forse. Adesso è ora di andare a dormire: lui starà già dormendo da un pezzo e anche Adele stanotte riuscirà a riposare, cullata da una nuova speranza.
23 aprile 2020 – © Riproduzione riservata