Si stava meglio quando stavamo peggio
Amedeo Rinaldi ricorda con lucidità e passione la Battipaglia che non c’è più: la guerra, la prigionia in Germania, il ritorno nel 1945 e la ricostruzione
Quando ho visto il signor Rinaldi seduto al tavolo del salone, sorriso smagliante e occhi vispi, ho subito capito che per lui questi primi 92 anni non sono stati che una sequenza numerica di giorni, ricca però di innumerevoli esperienze e vicissitudini. Ancora rimpiango di non aver assaggiato l’ottimo caffè fatto dalla moglie durante l’intervista: un giovanile eccesso di educazione. Mi ritengo molto fortunato per aver parlato con lui, premiato con la Medaglia d’Onore datagli dal Prefetto di Salerno Gerarda Pantalone e con la Croce al Merito di guerra. Non basterebbero cento pagine per riportare fedelmente quanto sentito, ma ho cercato comunque di non tralasciare niente di importante della sua pittoresca esperienza.
Signor Rinaldi, innanzitutto grazie della disponibilità. Partiamo dall’inizio, da quando lei è nato fino alla chiamata sotto le armi.
«Io sono nato nel 1922, in pieno periodo fascista. Ho fatto tutta la trafila, dai Balilla fino ai Giovani Fascisti. All’epoca l’attuale Belvedere faceva parte del comune di Montecorvino Rovella e tutte le case, i negozi e le strade che vedete ora prima non c’erano. Io ho sempre avuto un appezzamento di terra e la passione per le macchine agricole: ricordo che assieme a mio padre, anch’egli bersagliere medagliato per aver preso parte alla guerra in Libia, amavo manovrare la trebbiatrice che ci dava un aiuto enorme nei campi. I punti di forza della zona erano i pomodori, il mais e il tabacco: c’era tanto e duro lavoro ma la forza di volontà non mancava. Era un periodo felice, tutti si sentivano uniti e avevamo una gran voglia di costruire qualcosa di buono. Senza niente, avevamo tutto».
Quando è stato chiamato sotto le armi?
«Nel settembre del 1942. Prima andai al Distretto Militare di Salerno, in seguito al 2° reggimento di artiglieria contraerea di Napoli per la patente militare e subito mi mandarono a Mestre. Presi il treno per Atene, diretto in Africa, ma fui dirottato prima a Rodi e poi a Coo (nel Dodecaneso, ndr). Lì molti miei compagni vennero uccisi, io mi salvai per miracolo e il 28 ottobre fui fatto prigioniero dai Tedeschi che mi spedirono, dopo un breve soggiorno a Larissa, in un lager in Germania. Fu un viaggio lunghissimo attraverso Ucraina, Polonia e Germania».
Immagino quanto sia stata dura. Come è riuscito a salvarsi?
«Nel lager si viveva al limite, ci davano da mangiare quel poco per evitare che morissimo ed io riuscii a salvarmi perché servivo ai Tedeschi, grazie alla mia abilità di “tuttofare” e perché ero l’unico a saper aggiustare ogni tipo di veicolo. Quando i Russi liberarono il campo decisero di spedirmi a Berlino, sotto la protezione dei soldati statunitensi. Da lì presi un altro treno e finalmente cominciò il lungo viaggio di ritorno verso casa. Rividi la stazione di Battipaglia alle due di notte di un giorno di settembre del 1945 e due carabinieri mi scortarono fino alla mia abitazione».
Com’era cambiata Battipaglia rispetto al periodo pre-guerra?
«Quando tornai, nel settembre del ’45, non c’era più niente, tutto desolato. I miei conoscenti durante le fasi della battaglia si erano rifugiati sui monti della zona di Macchia di Montecorvino Rovella per ripararsi da bombe e mitragliette, vivendo in totale assenza di benessere e cercando di uccidere qualche animale per sfamarsi. C’erano macerie ovunque e solo dopo due-tre anni dalla fine del conflitto ricominciò una piccola fase di sviluppo, soprattutto nel settore agricolo. Io ripresi a curare il mio pezzo di terra e contemporaneamente lavoravo nell’industria Improsta di Eboli».
Cosa si ricorda degli Americani al Sud, nelle nostre zone?
«Ci aiutarono moltissimo e si comportarono in modo gentile. I bambini ricevevano sempre caramelle e cioccolata, le nostre mamme venivano riempite di sacchi di grano per fare il pane e per sfornare le pizze, amate dai soldati stranieri. Ricordo che gli Americani ci aiutavano nei campi di pomodori soprattutto perché facevano brillare le mine nascoste, evitando inutili stragi. Anche dopo la fine della guerra continuarono ad arrivare soldi e beni di prima necessità. Un mio parente di New York era solito dire che, con tutti i soldi inviatoci dagli Americani, potevamo costruirci delle mattonelle d’oro per piastrellare i marciapiedi!».
L’enorme differenza tra Nord e Sud si avvertiva anche allora, in un momento di gravissima crisi per l’Italia intera?
«Certamente, anzi all’epoca era più forte che mai. Le grandi industrie erano solo al Nord, qui si viveva di piccole fabbriche spesso a conduzione familiare. Molte di queste inoltre vennero distrutte durante la guerra: per esempio il Consorzio Agrario di Bellizzi venne bombardato dagli Americani perché ritenuto una caserma piena di tedeschi. Nonostante l’arretratezza, però, qui ci davamo molto da fare: mio padre, per esempio, fu uno dei soci fondatori della Cassa Rurale di Battipaglia e io stesso ho seguito la sua strada. Non c’erano soldi e alla Cassa Rurale arrivavano le più disparate richieste: dal cibo allo spago… erano anni di grande crisi e ristrettezze economiche».
Ma secondo lei si viveva meglio prima, dopo la guerra o attualmente?
«Per me prima, nonostante l’assenza di tutti i comfort che ci sono ora. Quando qui non c’era niente, quando si lavorava anche di notte c’era una più intima unione tra la gente. Prima le feste erano realmente tali perché tutta la famiglia si ritrovava unita. Quando io ero ragazzino gioivo nell’uscire con mio padre e mentre guidavo il trattore avevo sempre con me il fucile nel caso trovassi qualche animale, tutto era più genuino. Dopo la guerra è iniziata la decadenza, i vicini si rubavano le cose a vicenda, molti fra i miei amici non hanno trovato più nulla quando sono ritornati in quello che restava delle loro case. Molte persone si sono arricchite rubando e poi rivendendo la roba degli Americani. Adesso, infine, i giovani si stanno perdendo dietro a tutta questa tecnologia. I migliori uomini sono diventati tali proprio perché figli della semplicità, capaci quindi di sopportare condizioni difficili e formando la propria persona nel rispetto di sani principi. Spero che voi ragazzi riscoprirete presto queste cose, perché solo così si può uscire da questa triste situazione».
Non ci sono parole adatte per descrivere le emozioni che ho provato durante l’incontro con questa persona eccezionale: tutto sarebbe riduttivamente scontato. Vedere il signor Amedeo ricordare con amarezza, ironia e lucidità avvenimenti molto vecchi e indubbiamente dolorosi mi ha commosso, mi ha fatto capire quanta sofferenza deve esserci stata nella sua vita e quanta forza di volontà ancora si celi in lui, nonostante l’età avanzata. Certe figure così importanti sono troppo spesso ignorate da un continuo progredire che ha sempre meno tempo verso chi può e vuole dire la sua opinione sul passato. La speranza è che, durante questa folle corsa, ci sia qualcuno che abbia il coraggio di fermarsi un attimo per guardare indietro, meditare su ciò che è stato fatto e ripartire, senza mai dimenticare ciò che siamo stati.
27 marzo 2014 – © Riproduzione riservata