Siamo tutti fardelli

[di Ernesto Giacomino]

Ce ne abbiamo due, anche noi i nostri due: morti per incuria, abbandono, per assenza di un letto al caldo. Cosicché balziamo rapidi agli onori della cronaca perché quella gente là, i barboni, i senzatetto, roba che ai nostri figli spieghiamo che il grosso lo si trova solo in televisione, ci accorgiamo di averceli anche noi. Uno era un polacco, l’altro da identificare. E qualche concittadino, ci giurerei, magari uno di questi a cui piace stare in primo piano nelle pagliacciate con Belpietro, non avrà sprecato l’occasione per buttare giù quel masticato amaro del “se ne fosse stato a casa sua”.
Il povero più povero di noi ha sempre un demerito, in quest’accozzaglia di demagogia e provincialismo che è diventato il sentire comune. Specie qui, specie dove si maschera furbizia per crisi e ingordigia per stenti. L’emarginato ha colpe, stop: ha la colpa per la pensione minima d’un padre che non arriva alla fine del mese, la colpa per la famiglia senza alloggio, la colpa per lo sfruttato precario con contratto a termine e stipendio da fame. La colpa per chiunque sia anagraficamente italiano e abbia un qualunque affanno. L’emarginato non ha niente ma gli si imputa tutto, finanche l’inesistente ripicca di un altrettanto inesistente Stato che vorrebbe (come?) ergerlo al di sopra dei “legittimi cittadini”.
Sarebbe carino, ora, prendere di faccia uno di questi oltranzisti dell’ultim’ora, questi che sbandierano ipocriti tricolori sputando slogan del ’39, e portarlo in quella sala mortuaria. Sbatterlo fronte a fronte sui resti di un uomo prima stremato dal freddo, poi sbeffeggiato e deturpato dai topi. Dirgli: eccotelo qua, il tuo nemico. Il tuo invasore. Morto lui, la tua vita non migliora comunque. Non hai né più né meno garanzie di prima. Non sei né più, né meno, privilegiato di prima.
La realtà è che, in questa borgata gonfiata a bocca che chiamiamo città, alle volte si muore anche di quello: di propaganda. Si muore della cultura del “diverso”, che sia un profugo o un pazzo nostrano, un povero o uno sbandato da strada. Del terrore seminato ad arte in migliaia di cuori d’acqua e menti di pezza, terreno fertile per instillare la certezza che lì, appena oltre l’angolo, ci sia sempre qualcuno pronto a rubarci qualcosa: il lavoro, la tranquillità, i sogni, il futuro.
Perché magari li avremo incontrati da vivi, quei due: e tutti – o pochi esclusi – avremo finto che quella silenziosa richiesta d’aiuto negli occhi annacquati fosse solo alcol, spocchia, provocazione. Perché il pregiudizio paga e ci riaccompagna a casa sani e salvi, con l’illusione spicciola di aver fatto la cosa giusta, di aver protetto i nostri figli, di aver intravisto una minaccia e averla saputa neutralizzare. È la cosa più comoda, in fondo: l’allineamento. Credere – con o senza fondamento – al bombardamento ideologico del pericolo imminente visto in quattro stracci lerci, una carnagione diversa o una pronuncia storpiata.
Pezzetti, granelli microscopici di umanità che ci si staccano di dosso come forfora e tracciano la scia di ciò che eravamo. Quel valore dell’individuo, che un tempo si misurava in dignità, ora è il prezzo della vergogna che non si ha. E questo, anche se è inverno, è un settore in cui non partono saldi.

13 gennaio 2017 – © Riproduzione riservata

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