Solarium minimo

[di Ernesto Giacomino]

Il primo maggio appena trascorso m’è sovvenuta la solita riflessione di tutti i primi maggi, allacciata all’ormai rodata consuetudine locale, in questa data, di montare in sella al destriero e mettersi a difendere petto al vento le categorie “costrette” a lavorare nonostante l’elevato valore simbolico della ricorrenza.

Una su tutte: gli addetti degli ipermercati. Questo fatto che, uh signora mia, dove andremo a finire, quante comodità moderne, la gente che aspetta le feste per fare la spesa fregandosene di madri e padri costretti a stare l’intera giornata lontano dalle famiglie. Come fosse quella, la motivazione per cui un esercizio di grande distribuzione sceglie di spendere – oltre alla paga dei dipendenti – centinaia d’euro d’elettricità, acqua corrente e vigilanza semplicemente alzando le saracinesche: gli sfizi festivi dell’utenza, “E no, e sai come ci rimarrebbero male a trovarci chiusi e non avere la Viennetta per dessert”.

In verità il discorso sarebbe un attimo più complesso (occorrerebbe masticarne di filiere e aggregazione settoriale, intervalli di “rabbocco” dei fornitori, deperibilità delle scorte, volatilità degli usi dei consumatori che decretano sopravvivenza o chiusura di un negozio nel tempo d’un fine settimana), e come sempre il dibattito dovrebbe essere sacralmente limitato alle opinioni dei soli addetti ai lavori.

Per cui: bocca cucita e mani alzate se a lamentarsi sono dipendenti e maestranze varie degli ipermercati (e anche qua badate che non c’è unanimità di condanna, perché nei festivi i gestori seri prevedono una paga aggiuntiva che a taluni viene comoda); un po’ meno se l’indignazione arriva dalle truppe che questa festività la benedicono perché possono farsi la gita fuoriporta o un’anteprima di mare. Perché là di colpo no, tutta l’intoccabilità della celebrazione diventa magicamente elastica e opinabile: si pretendono bar e ristoranti aperti, caseifici a pieno ritmo, lidi funzionanti, intensificazione di pattuglie per strada. Gli stessi supermercati tacciati di “rabbinaggio” in città risultano comodi e provvidenziali se li becchi a casse aperte lungo la statale per il maxi-bustone di patatine a prezzo ottimo per il figliolo urticante: com’è, manco siamo usciti dal centro cittadino e già per questi dipendenti qua non vale, il diritto al riposo? E per quegli altri, i camerieri, i barman, i bagnini? E per quelli col turno in fabbrica, e le forze dell’ordine, e i pompieri, i medici, gli infermieri, i panettieri, gli stampatori di quotidiani, gli addetti alle centrali elettriche, i ferrovieri, i piloti, i farmacisti, i benzinai?

La verità è che non può spettare a noi, alla nostra personale visione della vita, stabilire quale lavoro sia sospendibile e quale no. Ci muoviamo in una società complicata, con equilibri delicati, con un futuro in continuo assemblamento e macro obiettivi la cui comprensione e visibilità non sempre sono alla nostra portata. Leciti o meno, per carità: ma sicuramente non liquidabili con proclami di sicura nobiltà d’intenzioni ma scarsa – se non nulla – fattibilità.

Più pragmaticamente, invece, scegliamo la riconoscenza: perché è solo grazie a loro, a chi resta al lavoro, che possiamo godere dei nostri agitati, illusori, fugaci attimi di riposo.

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