Spasso falso
[di Ernesto Giacomino]
La vicenda della villa comunale di via Belvedere è ormai un leitmotiv per tutte le salse; a ogni cambio d’amministrazione sembra un po’ la storia di quelle mamme che si presentano al colloquio scolastico illudendosi che i nuovi professori comprendano meglio il figlio, per poi sentirsi immancabilmente ripetere che no, “il ragazzo ha le capacità ma non si impegna”.
E beh. Le capacità, dico. Quelle c’erano tutte: circa un ettaro di verde, ombra e fresco a spiovere, tre aree asfaltate per basket, calcio e pattinaggio, recinto attrezzato per il passeggio dei cani domestici, custodia e manutenzione comunale. Poi, però, è mancato l’impegno. Salvo brevi parentesi, l’ignavia con cui la villa comunale in questione viene lasciata a marcire è degna di certa cinematografia americana sui sobborghi metropolitani.
Ne ho parlato, qui, qualche mese fa, sperando di poter smuovere qualche coscienza. Tentativo, pare, non andato esattamente a buon fine. Ne riparlo adesso, perché la sostanza del problema si è spostata pericolosamente dall’asse dell’estetica a quello della sicurezza. E con un Comune in penuria di cash come il nostro, sentirsi perennemente in casa lo spettro di cause per danni non pare il clima ideale per il percorso di ricostruzione che tutti ci auspichiamo.
In primis, la “capannella”. Trattasi di obbrobrioso manufatto di lamiera, ivi insistente, adiacente lo pseudo-campo di calcetto (frequentato – specifichiamolo – quasi esclusivamente da bambini e ragazzini). Forse voleva essere uno spogliatoio, forse una baracca per gli attrezzi, forse chissà: fatto sta che oggi è una coltura intensiva di batteri e sporcizia. Azzannato da un incendio, e con le porte sempre pericolosamente spalancate, custodisce all’interno un ricettacolo d’incuria e immondizia (vetri, rottami, kleenex lerci, agglomerati da identificare) che da solo fa un’emergenza ambientale a parte.
I campi, poi. Quello di calcetto ha la recinzione interamente divelta, con spezzoni di fil di ferro penduli da ovunque che aspettano solo di ferire e lacerare. Quello di basket ha i canestri (o meglio, ciò che resta: pesanti telai di ferro arrugginito, senza più nessuna rete) che minacciano costantemente di crollare su un malcapitato a caso al primo colpo più marcato degli altri.
Da non dimenticare, in ciò, la famosa “zona ludica”. Che ormai di ludico non ha più niente, ma compensa col laido: un miniscivolo lercio, una minipasserella da un tugurio di plastica all’altro, qualche gradino su cui inciampare. Il tutto condito da nugoli di cani a spasso, orfani di qualunque area dedicata, e con padroni al seguito incapaci di pronunciare alcuna altra frase oltre “tranquillo, non morde, è piccolo, vuole giocare” mentre il cucciolo ti sta simpaticamente staccando le dita.
Come dire: lasciamo stare il decoro (che pure urla giustizia), ma qui parliamo di salute e incolumità, salvaguardabili con un migliaio d’euro per i rappezzi più urgenti. Mentre correre ai ripari, lo sappiamo, costerebbe sicuramente di più.