Stretta la foglia, ma pure la via
[di Ernesto Giacomino]
Serve una strategia di allontanamento del traffico dal centro urbano. Ci stiamo intossicando, fisicamente e psicologicamente. Oltre quanto, intendo, non stia già facendo la pluriennale gestione a perdere della questione rifiuti.
Roba urgente, dico. Quotidianamente Battipaglia implode sotto il peso di migliaia di motori in coda. Accerchiati un po’ ovunque, noi: dalla rotatoria sulla S.S. 19 in direzione zona industriale, al cavalcavia post-autostradale verso Taverna, all’innesto al centro da via Belvedere.
Automobilisticamente parlando, siamo l’imbuto della Piana del Sele. Il capolinea della viabilità d’un buon tratto della provincia salernitana. Con cause, in realtà, neanche poi tanto nascoste.
La variante, per dire: quelle tre rotonde in due chilometri saranno pure efficaci per fare la spesa comoda, ma risultano evidentemente infelici per la scorrevolezza d’una strada statale. E l’assenza – giustificata o meno dalle carenze d’organico – d’un braccio umano a dirigere il traffico in snodi salienti quali i ripetuti incroci di via del Centenario, o ai vicoli che dal rione Stella sbucano su via Roma, ci mette il resto.
Si parla di rifare il verde, allora. Opere massicce, imponenti; capolavori d’architettura floreale che ad ascoltarli in campagna elettorale non sapevi se era il caso d’imparare a spostarti con le liane: che qua, dicevano, prima o poi sarà tutta foresta.
E ok. A parte che per ora, tra un lavoro pubblico e l’altro, tra una zappata storta e un trattato di botanica letto al contrario, gli alberi tutt’al più li stiamo eliminando; a parte questo, dico: ma, pur volendo credere in cotanta opera di rimboschimento, questo nuovo verde cosa lo metteremmo a fare? Ché probabilmente avrete capito male: quella che s’assorbono gli alberi rilasciando ossigeno è l’anidride carbonica, non la sgasata d’una carovana di marmitte a passeggio per il centro. Quella lì, ottano più, ottano meno, alla lunga è dannosa anche per loro. Per via dello smog, delle polveri tossiche, degli sbalzi di temperatura. Piantarli subito per ucciderli lentamente, insomma. Roba che manco nei sogni più inconfessabili d’un torturatore seriale.
Eh, ma la maggiore serenità, dice. Il relax impareggiabile che ti portano gli spazi verdi. Poi fa niente, se tra un millisecondo di relax e l’altro imprechi un paio d’ore come un rematore di galea veneziana per l’infuriata di clacson e motori rombanti.
La realtà è che quello della riqualificazione è un concetto ampio, strutturato, complicato. È un insieme di azioni con molteplici attori, che deve spronare innanzitutto il cittadino. Con l’educazione, la sensibilizzazione; l’inclusione attiva in un progetto di vivibilità a lungo termine di cui deve sentirsi protagonista.
Non può farci molto, il nuovo verde, se a monte non c’è una strategia tesa alla sua fruizione. E non può esserci fruizione, a monte, se non si riducono quegli stessi ostacoli (logistici e di pensiero) che hanno portato alla depauperazione del verde vecchio.
Solo da lì in poi, si può parlare di riqualificazione. A strade sgomberate, aria ripulita, rumori azzerati. Ripristiniamo una viabilità da gente civile, allora, e troviamo il modo di non farci sommergere da veleno e lamiere. Poi, magari, penseremo a come convertire in tempo libero la salute ritrovata.
30 ottobre 2021 – © riproduzione riservata