Sudor di popolo

[di Ernesto Giacomino]

Ultra-scoop, nevvero. Pare che dal segretissimo taccuino del Commissario Prefettizio siano stati carpiti i primi appunti buttati giù appena arrivato a Battipaglia: 1) passare l’amuchina sulla scrivania di Santomauro; 2) ricontrollarla col luminol (non si sa mai); 3) tenere la mozzarella sempre fuori dal frigo (non è come l’Invernizzina?); 4) recuperare i microfoni delle intercettazioni (finiti al karaoke del bar Peppe); 5) scovare almeno un mafioso (ma due sarebbe meglio, per buttarla sull’associazione a delinquere); 6) trovare ventidue milioni d’euro.

In realtà, non è che questo fatto del deficit comunale risulti davvero ultimo, nella lista delle sue priorità. È che, almeno per il momento, non voleva autosmorzarsi l’entusiasmo con problemi irrisolvibili.

Perché non so se dà vagamente l’idea il solo suono, di queste parole: ventidue milioni. Ci vuole del tempo già per scriverli, figuriamo per raggranellarli. Spartiti pro-capite, con un calcolo alla buona, farebbero un esborso (ulteriore) di circa millecinquecento euro per ogni famiglia battipagliese iscritta all’anagrafe. Senza ricevere, in cambio, alcun surplus di servizio pubblico.

Ed è inutile illuderci, sperare, rimandare, sognare. Il concetto è lapalissiano: se è vero che come comunità, negli anni, abbiamo speso più di quello che c’era in cassa, per rimettere i conti in carreggiata non c’è – e non può esserci – altra via se non quella di rimpinguare il piatto. E non dovrà farlo lo Stato, l’Unione Europea, l’Onu, la sorte o qualche benefattore ultramilionario che passando di qua ha esagerato col limoncello: dovremo farlo noi. Quindi ci farebbe sommo piacere, ‘sto giro, che i neo-candidati a futuro sindaco della città (atteso che non sbuchino le temute contaminazioni camorristiche che ci impedirebbero elezioni a breve) ci dicessero chiaramente dove prenderanno i soldi. O meglio: come ce li prenderanno.

No, sul serio. Basta salire sui palchi e parlare di cose che nemmeno capiamo, roba tipo “valorizzazione e rilancio del territorio come punto nodale sinergizzato con l’indotto dell’attrattività insita nel substrato tecno-produttivo”. Basta tentare di accaparrarsi voti promettendo sciovie sul Castelluccio, parchi acquatici nel Tusciano e un clone di Yellowstone sull’Aversana con tanto di orsi e lupi grigi, illudendo i più beoti circa i conseguenti – improbabili, invisibili, impossibili – introiti derivanti dall’incremento del flusso turistico (“incremento” è un vocabolo inadatto: tutt’al più, dovesse comparire qui una cosa che non c’è mai stata, si dovrebbe urlare al miracolo).

Basta davvero, siamo seri. Alzare le tasse al limite, scovare gli evasori, vendere qualche rudere, ci consentiranno – se ci va bene – di recuperarne un terzo, di quei soldi. E il resto? Il resto è insanabile. Perché quel resto non doveva esserci; perché è un resto malato, incontrollato, lievitato per decenni sulla scia di prebende e convenzioni e favoricchi a questo o quel gruppo d’interessi, frutto di gestioni improvvisate e scellerate, figlio viziato di quella macchina sputa-sprechi del “chissenefrega, passa oggi e viene domani”.

Ripeto, allora: d’ora in poi, chiunque ambisca al prezioso pouf più alto del palazzo comunale, dimentichi a casa il dizionario del politichese. In campagna elettorale ascolteremo solo chi, con carta, penna e pallottoliere, saprà spiegarci la sua personale, pratica, fulminante idea sul come tirarci fuori dal guano nauseabondo in cui annaspiamo.

Sistemoni al Superenalotto, ovviamente, esclusi.

20 giugno 2013 – © riproduzione riservata

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