Tengo che fa’
[di Ernesto Giacomino]
Per chi non crede alle casualità: qualche settimana fa ero al salotto comunale di Palazzo di Città, alla presentazione del libro “Eravamo tanto amati” di Domenico Guarino. Verso le venti, minuto più, minuto meno, s’era comunque in drittura d’arrivo e prossimi ai saluti: non fosse che necessitava quel po’ di tempo tecnico in più per chiudere un dibattito che stava animando i relatori. E beh, si diceva: le coincidenze, no? A un certo punto autore e convitati guardano un po’ l’orologio e si accordano: va be’, finiamo questo discorso e andiamo, non ci negheranno mica altri cinque minuti? E invece paf, ti va a succedere che di botto si spengono le luci in sala, in tutta la zona riservata al pubblico, sopravvivendo giusto un paio di faretti malaticci a dare penombra al banchetto di presentazione. Impossibile continuare, quindi; o comunque farlo senza sapere se di fronte hai ancora gente o sagome di cartone su sedie vuote.
Un problema tecnico, sicuramente. Solo i malpensanti potrebbero ipotizzare un atto volontario di cotanta spocchia e maleducazione da parte d’un qualche sorvegliante; ancor più che a un qualunque tizio civile, nella medesima condizione, sarebbe bastato affacciarsi dal fondo della platea e far segno ai presentatori che stop, time out, it missa est. Discreto, efficace, garbato.
Perché supporre un fatto intenzionale è grave e pericoloso, sissignori. Significherebbe insinuare, che ne so, che quando s’è dato in gestione il salotto comunale non s’avesse ben chiara la differenza tra una presentazione letteraria e la degustazione del caffè omaggio al discount sotto casa. Significherebbe non essere stati – mai, nella propria vita – a nessun’altra presentazione, e dunque ignorare che si tratta di roba in cui gli orari sono sempre e necessariamente orientativi, che da quel palchetto ci si relaziona e non si televende, che a un artista e al suo pubblico poco può e deve fregare se qualcuno ha la trippa al sugo in tavola e non può sforare d’un quarto d’ora.
Disponibilità e flessibilità, si chiamano: e, se vuoi fare cultura, vanno assicurate a ogni costo. Ivi incluso, ovviamente, lo straordinario all’addetto sala (e magari un manualetto di bon ton, che non guasta mai). O così, oppure meglio far andare a meretrici tutti quei bellissimi discorsi – tanto in voga, quando il massimo dello sforzo intellettuale richiesto al cittadino è presenziare a eventi mondani tipo il taglio del culatello o il rutto sincronizzato – sulla Battipaglia ricettiva, sul nutrimento culturale, sui giovani finalmente stimolati all’aggregazione, sul “se organizzi poi vedi che la comunità risponde”. Ti evolvi poco, cerebralmente, se all’estro e alla flessibilità necessari per un definitivo salto di qualità opponi ancora il carrozzone rissoso e bacchettone dell’apparato pubblico, se non sai prevedere per tempo lo sforamento di un orario, se di fronte a un tizio che s’è fatto seicento chilometri per venirti a dire qualcosa d’interessante sai comunicare solo a colpi di spegnimenti di luce.
Che poi, ok, qui si fa tanto per parlare. Perché in fondo s’è trattato solo di un problema tecnico: lo sappiamo e lo ribadiamo. O, almeno, lo speriamo.