Un velo pietroso
[di Ernesto Giacomino]
Ci ho fatto battaglie campali, io, contro l’approssimazione. Comizi, embarghi, crociate. Odio i condizionali, gli acronimi, le aggregazioni concettuali, i puntini sospensivi, gli eccetera a piacere. Odio i “circa”, i “vedremo”, i “domani è un altro giorno”. Odio l’inseguita, corteggiata precarietà di pensiero che coniuga ignoranza e strafottenza, l’eterna scelta della pillola azzurra soporifera in luogo di quella rossa rivelatrice, in una Matrix de’ noantri in cui Morpheus non è tra i leader rivoltosi ma tra i laidi rivoltanti. Tutti alla ricerca dell’Eletto, quindi: non il guerriero portatore di libertà, ma il capolista di partito dispensatore di privilegi.
Battipaglia cade a pezzi, e non è una metafora sull’abbrutimento diffuso – politico, morale, sociale, economico – della città. Ci sarebbe anche quello: ma meriterebbe, come ha già ampiamente meritato, righe a parte. Quaderni, libri, trattati. Enciclopedie, a parte.
E comunque prima di tutto ciò, di qualunque elucubrazione filosofica sul declino di una comunità ormai alla frutta, c’è una questione ben più pratica, e – se possibile – più urgente: Battipaglia cade a pezzi proprio fisicamente. Materialmente. Strutturalmente.
Battipaglia oggi è la mostruosa creatura in provetta partorita da un quasi-secolo di scempi edilizi incontrollati, di appalti a buon mercato e intrallazzi delinquenziali, di fumo negli occhi ai beoti in campagna elettorale. Battipaglia, dietro i bar modaioli e qualche fuoriserie di cafoni arricchiti, è tutto un coacervo di cornicioni in frantumi, facciate imbrattate, spiagge inquinate. Battipaglia è la fiera carnivora che scanna i suoi figli su strade periferiche assassine, tra un “boh” e un “non so” dell’amministratore di turno; che centellina interventi salvavita affidandosi all’eventualità d’una svista europea che ci regali qualche avanzo di contributo sfuggito ai più meritevoli.
Battipaglia è il paese dei balocchi dei furbi da risarcimento, quello in cui mezz’ora di pioggia scardina migliaia d’euro d’asfalto tarocco buttato alla bell’e meglio sulle vie verso il mare – più e più volte a ogni necessità di racimolare qualche voto tra i meno attenti – e dove, a macchina sfasciata e ossa ammaccate, anziché lo sdegno monta il calcolo d’una tronfia denuncia al Comune che per un po’ lenisca l’ansia da mutuo e da cambio di guardaroba. Perché il dissesto diffuso, qui, non fa quella rabbia che attecchisce, ma è il trogolo in cui azzuffarsi in settantamila come i verri nel porcile alla ricerca dell’avanzo migliore.
Battipaglia, per come ci piace che sia, diventa così l’ambizione massima di ogni politico, il cimitero di qualunque senso d’affratellamento civico, dove puoi promettere futuristici parchi disneyani senza curarti di ataviche fogne che eruttano e di strade che smottano; dove concetti come decoro urbano, ristrutturazioni, messe in sicurezza, grazie ai nostri paraocchi sono agevolmente snobbati come materia da circolo di uncinetto di massaie annoiate.
Ché se pure c’è qualcuno che s’indigna sul serio, poi, c’è come farglielo passare presto: ecco qua, siediti un attimo, va’ che quel tal privato là ci pensa lui, a imbellirti la città. Et voilà: un nuovo aborto di mini centro commerciale o multisala per scommesse, tutto nuovo nuovissimo, c’è da andarne fieri per secoli. Come diranno i posteri: Battipaglia: kaput, mundi.
13 marzo 2014 – © riproduzione riservata