Una prova di maturità
Questo è il momento della straordinarietà, di tutto ciò che non avremmo mai immaginato di vivere, di tutto quello che fino a trenta giorni fa avremmo collegato probabilmente all’ultimo film distopico uscito al cinema, come quelli che si trovano su Netflix. Non ci riesco perché, per esempio, speravo di poter vivere anche io la mia Maturità (non avrei mai pensato di dirlo) tutta ‘Notte prima degli esami’ cantata a squarciagola davanti scuola e che sempre avrei automaticamente associato agli Europei di calcio di quest’anno, come ho sempre sentito raccontare dai più grandi, che ricordano di aver studiato sentendo le azioni di Baggio alla radio, o Materazzi e così via. Quante volte gli studenti hanno sperato di saltare la scuola senza dover accampare scuse o inscenare fitte intestinali? Probabilmente ogni giorno dalla prima elementare. Eppure ora che siamo costretti a non andarci, non ne siamo poi così contenti. Anzi più passano i giorni, più rimpiangiamo la sveglia alle 6.30, la corsa per non perdere il treno anche stavolta, il terrore del dito del prof che scorre l’elenco per scegliere chi interrogare, persino quella strana sensazione di euforia mista a paura che comporta lo stare in piedi davanti alla gigantesca lavagna verde, gesso in mano e zero ore di studio alle spalle. E se è vero che questo strano tempo in cui tutto è immobile, fermo, sospeso in un piano indefinibile di timore e stupore insieme, che genera quella inquietante calma piatta propria delle guerre più atroci, ecco se è vero che proprio questo è il momento utile per riflettere su chi siamo e dove stavamo andando, approfittiamone davvero. Siamo nel pieno dell’emergenza sanitaria, ed è vero che i bilanci dovranno essere fatti più avanti, ma qualcosa questo virus, questa invisibile particella di un Universo in costante espansione ce la sta già insegnando. Il valore delle piccole cose innanzitutto, di tutto quello che quotidianamente diamo per scontato, come poter andare dove ci pare quando ci pare, o abbracciarci dopo un goal decisivo nel campetto dietro la Chiesa.
Poi il valore della comunità, e cioè la coscienza che le radici non sono qualcosa di retrogrado e bigotto, ma piuttosto un tangibile ed essenziale elemento di ciò che realmente siamo; quello della famiglia, che è il posto e il nido e l’amore fatto visibile, che talvolta potremo anche detestare perché troppo imperfetta, ma dove vale sempre ritornare; e la bellezza e la necessità dei legami reali che nessun social potrà mai sostituire e che, diciamocelo, stavamo perdendo del tutto, sempre chini sui nostri apparecchi, indifferenti a chi ci passava accanto, estraniati dalla realtà e da quel mondo che ora siamo costretti a vedere dietro una finestra. E le riflessioni continuerebbero ancora e ancora, chi più ne ha più ne metta. Il punto, però, è che tutto quanto stiamo imparando ora, non deve essere dimenticato poi. Perché quell’abbraccio fortissimo che ci daremo per strada, al tepore del primo sole estivo, e quella realtà che sarà rientrata ordinatamente in sé stessa e che riscopriremo come nuova e rinnovata, con lo stupore di chi è appena venuto al mondo, non deve ritornare ad essere scontato e superfluo. Dobbiamo conservare sempre, da quando finirà tutto questo in poi, la bontà del vivere e l’armonia dell’agire: di bruttezze il mondo era pieno, e quello sarà il momento di ricominciare da capo.
Romano Carabotta
23 aprile 2020 – © Riproduzione riservata