Undicesimo: non odiare
[di Ernesto Giacomino]
Non esistono guerre lontane. Non esistono perché il mondo si è accorciato, perché un check-in annulla le distanze, perché c’è il web, il tempo reale, l’interconnessione globale. Non esistono perché le nazioni non sono più stati sovrani ma società per azioni che si comprano e svendono tra loro, e allora c’è chi ha la minoranza di uno, chi la maggioranza di un altro, chi possiede governi sotto falso nome e chi s’accontenta d’una segreteria o un ministero, in una filiera complessiva di nazioni controllate e collegate che spesso fanno capo a un’unica holding. Non esistono perché l’umanità non è più fatta da economie isolate, risorse autoprodotte, lavoratori e capitali stanziali, ma da un domino dalle tessere infinite, l’una sull’altra a sorreggersi a vicenda, e la caduta di una compromette l’equilibrio di tutte le altre.
Non esistono guerre lontane; e, se pure esistessero, questa sarebbe la meno lontana di tutte. Perché anche a Battipaglia, come nell’intera Italia, la comunità di migranti dalle ex repubbliche sovietiche rappresenta una fetta corposa della società civile e del mondo del lavoro. Perché da decenni ex cittadini ucraini, russi, bielorussi, moldavi sono parte fattiva e integrante della popolazione residente, delle nostre fabbriche, delle nostre campagne, delle nostre scuole. E quindi chiunque, qui, conosce bene almeno una persona proveniente da quei Paesi ora straziati dalla guerra. Un amico, un collega, un vicino: che quasi sempre, oggi, ha uno o più parenti stretti ancora in patria, e sfinito da ansia e attesa vive da giorni con il cellulare in mano e gli occhi sui telegiornali.
Solo tre settimane fa, per dire, mio figlio ha salutato una compagna di scuola, in partenza per l’Ucraina con i genitori per il disbrigo d’una formalità burocratica. Di colpo, per giorni, non se ne sono più avute notizie. Ora si sa che sono riusciti a scappare via terra con mezzi di fortuna; e solo ieri, dopo giorni di spostamenti a singhiozzo, hanno varcato il confine con la Romania.
E quindi no: non è una guerra lontana, se a una tredicenne della nostra comunità, in una manciata di giorni, i suoni nelle orecchie sono passati dal frastuono gioioso del McDonald’s ai fischi delle bombe sulle case.
E non è una guerra lontana, purtroppo, quando accade il contrario, quando alla solidarietà sostituiamo il pregiudizio. Quando a quello stesso conoscente russo con cui ieri condividevamo il viaggio in autobus o il tavolino d’un bar, riserviamo, di colpo, occhiate di diffidenza, atteggiamenti isolatori. Offese, sempre più spesso. Sabato scorso, in coda alla rosticceria, tre adolescenti dello stesso gruppo si prendevano in giro tra loro. Uno dei tre era russo, e per quanto potessero essere goliardiche o canzonatorie le “accuse” di essere un invasore, alla fine lo hanno fatto piangere.
Perché è quella, l’amnesia collettiva che ci assale in questi casi: ci dimentichiamo che la guerra non la fanno le persone, i lavoratori, la gente comune. La guerra la fanno gli interessi: roba senza carne e corpo, entità astratta, possessione che rende automi inebetiti chi spinge i bottoni per sparare.
Non c’è mai, quindi, un popolo aggressore contro un popolo aggredito: ma solo – e tragicamente – un unico e incolpevole popolo vittima.
12 marzo 2022 – © riproduzione riservata