Valeria Parrella: una promessa mantenuta | di Alessia Ingala
Abbiamo incontrato l’affermata scrittrice napoletana a poche settimane dall’uscita del suo ultimo romanzo Tempo di imparare edito da Einaudi
Valeria Parrella, napoletana, dal 2003 a oggi è passata dall’essere giovane promessa ad autrice affermata e di successo. Ha sorpreso fin dagli inizi con due raccolte di racconti, Mosca più balena (2003) vincitore del Premio Campiello Opera Prima, e Per grazia ricevuta (2005) arrivato tra i cinque finalisti al Premio Strega; poi quattro splendidi romanzi, di cui il primo Lo spazio bianco (2008) trasformato anche in successo cinematografico da Cristina Comenicini, e presentato alla Mostra del cinema di Venezia; nel 2010 ha pubblicato per Rizzoli Ma quale amore; e tra un libro e l’altro testi teatrali. A due anni dall’ultimo romanzo Lettera di dimissioni, è uscito in questi giorni Tempo di imparare, che ha tenuto fede alle promesse e alle attese. Le abbiamo chiesto un’intervista e siamo riusciti a incontrarla dopo aver letto le pagine di rara intensità che la consacrano definitivamente come autrice dal timbro inconfondibile e voce autorevole della nostra letteratura. In apertura, a pagina 13, Valeria Parrella cita la nostra città, scenario lontano del primo giorno in cui la madre percepisce “davvero suo” il piccolo Arturo, segnato da una “nascita contorta e strana”: “… Era un agosto cupo ed uggioso, e in lontananza si vedeva la piana di Battipaglia che faceva pensare più ad una guerra antica che alla pigrizia dei bagnanti”.
Ho divorato il tuo libro in poche ore, maturando pagina dopo pagina un’impressione sempre più forte. Tempo di imparare: in realtà chi impara da chi e cosa? Raccontaci qualcosa in più di Arturo e di sua madre… «Chiaramente è un apprendimento in senso diverso dal consueto. Non dall’alto verso il basso, dall’insegnante all’alunno e dai genitori al figlio. Diciamo che imparano tutti e di pari passo».
Affronti il tema della disabilità in maniera asciutta e poetica insieme. La giovane madre del protagonista vive nel quotidiano fatiche simili alle fatiche d’Ercole, è costretta a “salire gli scalini degli ospedali, che sono scale mobili prese al contrario”, e in un punto: “che sconfitta, figlio, tenere assedio al proprio Paese”, esclama. Pensi, da donna del sud, che per il nostro Paese ci sia ancora possibilità di riscatto?
«Senò mica ci vivrei: io posso scrivere ovunque e anche il mio compagno ha un lavoro legato alla cultura: non abbiamo cittadinanza. Ma io mi sento profondamente meridionale, mediterranea, terrona, terragna. La comunità che accoglie il piccolo Arturo e sua madre è una comunità simbiotica e solidale che è molto molto simile a tante realtà del nostro sud. Poi, io sono anche glocal. Cioè io non credo negli “altrove”, che altrove sia meglio, che altrove sia diverso, che si debba andare altrove. Se uno ci è costretto, sì, lo capisco. Se uno si innamora di un americano pure, ma io penso che siamo ora e qui e alla cura di questo ci dobbiamo dedicare».
Ha ragione, Valeria. E il sorriso aperto con cui si afferma terrona mi conquista. Dobbiamo ritrovare un po’ di fiducia. Comincio a cercarla nelle sue parole.
La ricerca linguistica nei tuoi testi è sempre stata molto importante…
«La verità? È l’unica cosa che mi interessa. Le trame sono “pretesti” ovvero testi che vengono prima, poi quello che conta è trovare il senso della vita (fa strano detto così, no? Come se fosse facile. Però se uno prova a dirlo già è sull’indirizzo giusto) e la lingua per raccontarlo. Cosa può fare l’italiano? Mirabilie; è una lingua che va stritolata, oppure è lei a stritolare. È un mobile antico a cui bisogna dare nuova cera, un tornio scricchiolante e validissimo… studiare, cercare, non dare nulla per scontato… questo».
Parlaci dei progetti che hai in cantiere, magari in teatro, dopo l’importante riconoscimento dello scorso anno, il Premio Le Maschere del Teatro italiano come Miglior Autore di novità italiana per la tua Antigone.
«Non so non so… adesso esco dalla stesura di questo libro, piano piano!» Scuote la testa e i riccioli che le incorniciano il volto da ragazzina.
Come ti senti a essere considerata, così giovane, una delle voci più intense del nostro panorama letterario? E che consigli daresti a un giovane autore che comincia ora?
«Non sono giovane. Ho compiuto 40 anni. Sono giusta. Mi sento giusta giusta per l’età che ho. A un giovane consiglierei di farsi pubblicare. Tentare anche con il self pubblishing pur di farsi leggere perché si diventa scrittori non quando si scrive ma quando gli altri leggono quello che ha scritto».
Non aspettare, Valeria. Scrivi ancora, e presto. Tempo di imparare è un libro imperdibile. Nel quale ciascuno può trovare una parte di sé.
30 gennaio 2013 – © riproduzione riservata