Vivissima voce

[di Ernesto Giacomino]

E ok, diciamo che qua a Battipaglia alla moda del truzzo con la disco dance nell’autoradio e il sub a palla ci avevamo oramai fatto il callo. Pur non comprendendo, in realtà, perché gente con tremila euro d’impianto stereo fosse generalmente restia a spenderne duecento per un cambio di marmitta o una riverniciata al tettuccio.

E ci s’era assuefatti, alla lunga, anche alla versione più eversiva del fenomeno, tipo – anziché synth e cassa house – certi neomelodici napoletani sparati a duecento decibel per vicoli e palazzi, affinché tutti i residenti d’una data zona sapessero in tempo reale che per tale Genny Mirandola o Frank Varcatiello “si m vuo’ bene nun sì veleno ma sì sanghe dint’e vene”.

S’immaginava si fosse raggiunta la vetta, insomma. Il limite invalicabile, la temperatura di picco in cui la materia balza al quarto stadio e diventa plasma.

Poi, però, eccoteli là: tutti questi scienziati ed esperti di tecnologia, evidentemente insoddisfatti del livello ancora scarso di disturbo propagabile attraverso un automezzo, vanno a inventarsi altro. L’arma di frustrazione di massa, il missile definitivo, il terminator retrospinto da un futuro scadente venuto non a sistemare ma ad acuire i guai presenti. Lui, insomma: il vivavoce in auto.

Che come tutte le invenzioni in tempo di pace, ovviamente, inizialmente si portava in corpo una semplice e nobile intenzione: salvaguardare la salute dei conducenti evitandogli distrazioni al volante. Drin, telefonata in arrivo, pulsante, voce dagli altoparlanti: perfetto, ottimo attrezzo, con un’unica mossa conversiamo e sopravviviamo.

Ricapitolando, quindi: macchina in movimento, mani impegnate, telefonata in arrivo. Paiono i fondamentali, no? Quelle che nelle regole della logica si dicono condizioni necessarie e sufficienti affinché una proposizione confermi la veridicità dell’evento.

Eppure no, macché. Noi, quaggiù, si resta un popolo di alternativisti e oppositori, ci fosse Einstein gli contesteremmo che ok la velocità della luce al quadrato, ma mettessero un doppio bonus in bolletta. E quindi, di rimando: perché limitarsi a usare il vivavoce solo se si è in marcia, quand’è talmente una comodità che posso parlare e contemporaneamente scaccolarmi, sistemarmi i capelli, rovistare nel cruscotto alla ricerca di quella mezza big babol lasciata là nel 2016 che nel frattempo sai come s’è insaporita?

Detto fatto, insomma: che debba prendere appuntamento col gruppo di calcetto, o litigare col capufficio, o amoreggiare con la ragazza, o fare uno scherzo alla nonna, il metodo ormai è quello. Accosto sotto un palazzo, categoricamente a notte fonda, attivo l’impianto stereo da duemila watt e chiamo, spandendo misticamente per rioni bussate di cellulare in surround manco stesse telefonando il Padreterno in persona. E poi la risposta, chiaramente, e la chiacchierata sciolta e i convenevoli e l’arrabbiatura e il litigio e i chiarimenti e la pace, e poi daccapo. Tutto in mondovisione, con la gente intorno che man mano s’affaccia ai balconi in pigiama e comincia a tifare e consigliare.

Che lo so, voi la chiamereste maleducazione, ma è ben altro. È l’assenza, sempre più dannosa, dell’unico sentimento che davvero poteva salvare il mondo: la vergogna.

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